Quotidianità della vita valtellinese durante gli anni della “Guerra Bianca”
IL VOLUME È ESAURITO
Presentazione di Leo Schena e Livio Dei Cas, curatori della pubblicazione
Gli storici sono unanimi nel riconoscere che l’identità di un Paese è strettamente legata alla narrazione del suo passato. Nella ricorrenza del centenario della Grande Guerra, ricordare è quindi un imperativo morale soprattutto nei confronti delle nuove generazioni perché non vada dispersa la memoria delle gesta di coloro che si sacrificarono per amore di patria in quel tremendo conflitto che cambiò l’assetto politico planetario.
Si è così assistito a una proliferazione di iniziative volte a celebrare la vittoria italiana nel primo conflitto mondiale conseguita con il sacrificio dei ragazzi del ’99 e che consentì all’esercito di riscattarsi dopo la disfatta di Caporetto respingendo tenacemente gli austriaci sino al Brennero.
Il presente contributo consiste nel rievocare gli anni terribili della Guerra Bianca in Valtellina attraverso le testimonianze scritte custodite nei cassetti di famiglia, nelle soffitte o depositate nei fondi delle biblioteche.
Diari, epistolari, cartoline sottratti alla polvere del tempo con cui si è inteso ricostruire la vita quotidiana nei paesi a ridosso delle prime linee e nell’intera provincia.
Un retaggio di memorie che continuano a suscitare forti emozioni e a far vibrare le corde segrete dell’animo. Esse rievocano lo spirito di quegli anni, fatto di ardimento negli alpini combattenti sulle vette e di reciproco sostegno nella popolazione delle retrovie ove primaria era l’esigenza di soccorrere le famiglie dei richiamati.
Dopo un anno di neutralità l’Italia denunciò il trattato che la legava alla “Triplice alleanza” per schierarsi al fianco delle potenze della “Triplice intesa”. Entrò così in guerra nel maggio del 1915. Per la quarta volta nell’arco temporale di settant’anni la zona dell’Alta Valtellina e Valcamonica giocò nuovamente un ruolo cruciale lungo il fronte settentrionale antiasburgico.
Dopo una parte introduttiva di carattere generale, incentrata sulle opere difensive nelle retrovie valtellinesi in caso di sfondamento del fronte (Franco Visintin) e sulla strutturazione dell’esercito alla vigilia del primo conflitto mondiale (Gisi Schena), l’attenzione è rivolta allo stato d’animo della popolazione valtellinese attingendo alle testimonianze della Grande Guerra nella corrispondenza di Luigi Credaro, dono degli eredi alla biblioteca della Banca Popolare di Sondrio.
Le numerose lettere scritte in quegli anni all’onorevole Credaro provenivano da militari che si trovavano al fronte, dai loro famigliari e da personalità della vita civile. Sono il frutto di un paziente e fruttuoso lavoro ad opera di chi dirige la biblioteca (Piercarlo Della Ferrera), coadiuvato in questa ricerca da due collaboratrici (Mirella Cantini, Elisa Romegialli).
L’illustre pedagogista, deputato al parlamento nazionale, già ministro della Pubblica Istruzione sino al 1914, con queste testimonianze si fa valoroso interprete delle sofferenze patite dai suoi convalligiani nei tormentati e tribolati anni della Grande Guerra.
Il distacco del padre, del marito, dei figli obbligava le donne a occuparsi della casa, a governare il bestiame e a coltivare la campagna in condizioni, talvolta, di mera sussistenza. Tutte, sollecitavano assistenza, aiuti finanziari, licenze agricole, trasferimenti in valle dei loro uomini perché venissero impiegati nelle retrovie.
Immediata la risposta del loro deputato che si adoperò senza risparmio per la raccolta di fondi e la creazione di comitati a sostegno delle famiglie in Valle. Generoso fu anche il contributo di alcuni valtellinesi emigrati in America la cui vicinanza alla “Grande Madre Patria” si manifestò nel superamento delle incomprensioni legate al regionalismo di provenienza per tradursi nel ritrovato sentimento di una comune coscienza nazionale.
Fra le lettere scritte dal fronte si rimane colpiti dalla testimonianza del capitano medico Gino Morelli che, contrariamente a quanto supposto dalla moglie, si trovava in prima linea ove aveva creato una rete di ospedali da campo per curare “i feriti al polmone secondo il metodo mio, cioè con lo schiacciamento mediante pneumotorace”. Ognuno combatteva la propria battaglia e quella del capitano Morelli risultava vittoriosa nel salvare chi aveva sperimentato sul suo corpo lo strazio della carne lacerata durante gli scontri a fuoco.
A farsi carico dello stato d’animo della popolazione dell’Alta Valle e del malcontento che vi serpeggiava fu il cavalier Francesco Peloni, farmacista di Bormio. Persona stimata e influente della comunità bormina consegnò in un diario, scritto con precisione anno per anno, gli eventi bellici del fronte e le ripercussioni nell’ambito del borgo.
La cronaca della Guerra Bianca nell’Alta Valle viene qui riassunta dal nipote, il giudice Giuseppe Tarantola, che subito annota la presenza del deputato Luigi Credaro, giunto precipitosamente alle prime avvisaglie del conflitto da Roma a Bormio per tranquillizzare gli abitanti preoccupati dall’inerzia delle truppe: “gli ufficiali sono a giocare a caffè” oppure “vanno tutte le mattine a fare una passeggiata in carrozzella e tornano a mezzogiorno”.
Sotteso è infatti il ricordo delle requisizioni di bestiame e di viveri perpetrate a danno del mandamento di Bormio quando nel 1866 l’alto comando dell’esercito non volle presidiare il Passo dello Stelvio lasciando libero il passaggio degli austriaci verso la Valtellina. Immemore di quella lezione lo stato maggiore dell’esercito, sordo alle sollecitazioni locali, lasciò che gli austriaci occupassero subito la posizione strategica dello Scorluzzo che dominava dall’alto le linee italiane.
Nel diario vengono puntualmente registrate le notizie false fatte circolare artatamente dall’alto comando che riteneva, a torto, la popolazione troppo “austriacante”, nonché i numerosi lutti per valanghe che si sarebbero potuto scongiurare in parte, se fossero stati accolti i consigli dei cantonieri.
Vengono altresì ricordati fenomeni di diserzioni e di propaganda austriaca mediante pieghevoli trasportati da palloncini. Largo spazio è infine dato alle vicende belliche, alle gloriose imprese della Trafoier e del San Matteo senza sottacere i bombardamenti e gli attacchi aerei di obiettivi civili, avvenuti fortunatamente senza gravi danni, né vittime.
Nell’Alta Valtellina il territorio maggiormente penalizzato dalle restrizioni agricole era la Valfurva ove il fronte correva sopra le case spossessando in questo modo gli abitanti dei beni posseduti in Val Zebrù.
Con abile ricorso al registro della lingua popolare Elio Bertolina dà solidale voce agli umori della gente “forbasca” ridotta in condizioni di vita precaria. Ne erano causa le continue requisizioni di bestiame, l’obbligo di denunciare i raccolti, il razionamento dei viveri, l’aumento dei prezzi, il mercato nero. Il tutto condito con l’invito, involontariamente beffardo, del governo a “risparmiare sul mangiare”.
In consonanza con la cronaca più circostanziata del cavalier Francesco Peloni, testimone oculare delle vicende raccontate, Elio Bertolina rievoca, un altro caso di “austriacantismo”. La presunta collusione con il nemico era attribuita, senza farne il nome, all’arciprete di Bormio. Questi era don Carlo Santelli accusato, con altri tre bormini di tradimento e sottoposto per ragioni di sicurezza militare alla misura cautelativa dell’internamento. Accusa ingiusta poiché le parole pronunciate dal pulpito contro l’atteggiamento inerte delle truppe italiane giunte nel Bormiese, mentre il comandante austriaco della gendarmeria di Trafoi aveva occupato subito posizioni strategicamente dominanti, denunciavano lo stato d’animo dei bormini preoccupati per questo pericolo incombente.
Anche il sotto-settore “Valtellina” conobbe la tragedia delle fucilazioni. Tre alpini, rimasti senza nome nelle cronache locali, furono mandati davanti al plotone di esecuzione alla IV casa cantoniera per aver cercato di espatriare in territorio elvetico attraverso la Muraunza, valle frequentatissima dai contrabbandieri in tempo di pace.
Di due altre esecuzioni avvenute in località Bagni Nuovi, ove si era insediato il Quartiere generale, lascia memoria Samuele Cola sulla scorta di una testimonianza scritta desunta dal libro dei defunti custodito nella parrocchia di Premadio. Documenta l’uccisione di un soldato ventiduenne giustiziato per aver risposto malamente a un suo superiore che non gli aveva concesso una licenza. Una “fucilazione per l’esempio”, come si soleva dire, ritenuta dalla gente del luogo eccessiva rispetto a questo atto di disubbidienza.
Diverso il caso di un altro soldato giustiziato per “essere un traditore della patria”. La sua colpa fu quella di aver manifestato troppe volte con scritte sui muri il radicato antimilitarismo. Pagò con la morte questa non dissimulata professione di fede pacifista. Il suo ricordo è stato raccolto dall’ufficiale che comandò il plotone di esecuzione e che durante le sue vacanze a Bormio tornò spesso a visitare il cimitero dei “soldà” dove fu sepolto lo sfortunato militare.
Sempre nella località Bagni Nuovi, dove avvennero queste esecuzioni, il comando di settore aveva destinato alcuni edifici, all’accoglienza dei soldati che, ottenuto il cambio, tornavano al piano per brevi periodi di riposo. La vita era quindi molto animata e nella vicina Molina furono aperte locande e altri locali di ristoro in aggiunta ai caffè e alla ricettività alberghiera di Bormio.
L’occasionale e felice ritrovamento da parte di Ilario Silvestri di un sacchetto contenente alcune cartoline e l’epistolario di una adolescente di famiglia benestante bormina, che non fa mistero della sua frequentazioni di giovani ufficiali, attesta come nelle quotidianità delle retrovie la ricerca del piacere e del divertimento servisse a fare scordare la dura vita di trincea.
In un corposo saggio dedicato alle pagine scritte durante il primo conflitto mondiale, Cristina Pedrana, sempre generosa nei suoi contributi riguardanti l’amata Bormio, passa in rassegna i principali scrittori e poeti che sentirono il bisogno di raccontare, da volontari al fronte, l’esperienza tragica della Grande Guerra.
L’indagine si focalizza poi sulle testimonianze dirette di alcuni ufficiali impegnati in quota sulla linea del fuoco. Sono per lo più lettere destinate ai famigliari che raccontano la quotidianità della vita di trincea, scritte soprattutto per tranquillizzare le persone care lontane.
Il nucleo più originale del contributo consiste nell’aver delineato efficacemente il profilo di tre scrittrici nate a Bormio, legate alla studiosa da vincoli familiari, e da una quarta associata al gruppetto per meriti di valtellinesità elettiva.
Tutte accomunate da innegabile talento letterario espresso con particolare vigore artistico nelle pagine che avevano per sfondo il paese natale durante gli anni della Guerra Bianca.
Nel momento conclusivo viene dato largamente conto delle notizie che, attraverso la corrispondenza di alcuni ufficiali, si riferivano ai comitati di assistenza e in cui veniva riconosciuta alle donne una “ammirevole femminilità di azione”.
In questo elogio, decisamente riduttivo, si può invece cogliere nelle donne dell’Alta Valle, atavicamente responsabili della gestione familiare quando i mariti o i figli emigravano per necessità lavorative, il segno di una acquisita consapevolezza di emancipazione dal tradizionale ruolo di angelo del focolare alle quali le relegava lo stereotipo allora dominante.
Sul piano della scrittura declinata al femminile, Mariolina Cangiano, affida a un diario stilisticamente sobrio e scorrevole le inquietudini, ma anche gli entusiasmi e le speranze per il cugino capitano Pierluigi Viola impegnato con i suoi alpini sul fronte avanzato dell’Ortles-Cevedale.
In queste pagine vi è una sorta di polifonia, un interscambio di voci che, oltre a quella del “cugino-fratello” e degli zii, fa parlare altri personaggi e in modo particolare Marietta, la vecchia domestica che considerava il capitano quasi un figlio.
Dall’insieme di questo epistolario emerge uno spaccato della Milano borghese di quegli anni angustiata dalle difficoltà e sofferenze patite al fronte, ma anche fiera per il coraggio e l’abnegazione mostrata dai suoi figli nel contrastare gli austriaci nel teatro di guerra più alto che la storia ricordi.
Secondo Giovanni Peretti (cui dobbiamo questa primizia), esperto conoscitore delle vicende della Guerra Bianca ed editore dell’epopea di Arnaldo Berni “il capitano sepolto nei ghiacci”, Pierluigi Viola ha pieno titolo per essere considerato un co-protagonista della storia alpinistico-militare, a dispetto di una minor risonanza del suo caso.
Per tre lunghi, interminabili, anni le truppe dell‘Ortles-Cevedale furono impiegate in una logorante guerra di posizione durante la quale si verificarono alcuni gloriosi fatti d’armi ad opera di pochi reparti abituati a muoversi in altitudini oltre i 3000 metri e in condizioni atmosferiche e ambientali proibitive.
Questo aspetto elitario di azioni militari ove i valori dei singoli erano preminenti rispetto alle masse di soldati impiegati in cruenti scontri lungo l’intero fronte della guerra, fu probabilmente la causa che fece mancare la voce di un bardo che cantasse le gesta dei nostri alpini.
Eppure il passaggio, registrato nelle cronache locali, dello scrittore e giornalista Herbert Werner Allen, nella primavera del 1918, fece conoscere già allora ai lettori di due delle maggiori testate del Regno Unito (“The Morning Post” e “Daily News”) le imprese degli alpini schierati a difesa del territorio italiano sui monti di confine con il Tirolo, dallo Stelvio sino al Gavia.
Anna Lanfranchi nel suo contributo, attingendo direttamente alle fonti inglesi, non si limita a commentarle riassuntivamente ma regala, per la prima volta, al lettore la traduzione di un intero capitolo tratto dal libro “Our Italian Front”.
Lo stile neutro degli storici che si sono occupati di quelle operazioni militari, sotto la penna del corrispondente di guerra proveniente da oltre Manica, cede il passo a una narrazione dal ritmo serrato, coinvolgente, pieno di sincera ammirazione, sia per le ardite realizzazioni degli ingegneri italiani, sia per la forte fibra fisica e morale dei combattenti di ambo i fronti: gli austriaci “valenti sul ghiaccio” e gli italiani “superiori sulla roccia”.
Il personaggio che nella galleria dei vari ritratti incontra una sorta di venerazione è il mitico colonnello Mazzoli “governatore dell’Ortler”. Con la sua lunga chioma bionda ribelle, la barba e gli occhi azzurri appariva come un “apostolo” secondo il cliché di certa rappresentazione figurativa. Un comandante adorato dai suoi alpini e rispettato dagli austriaci che, quando lo scorgevano muoversi solo e senza elmetto sui ghiacciai del Gran Zebrù, lo salutavano da lontano con scariche di fucileria.
Due altri ufficiali, fortissimi alpinisti, si ritrovarono avversari sulle montagne dell’Ortles-Cevedale amate da entrambi. Raffaele Occhi, accreditato specialista dell’alpinismo, specialmente nei suoi risvolti mitteleuropei, pone a confronto l’italiano Umberto Balestrieri e il tedesco Günter Oskar Dyhrenfurt che, attraverso un fenomeno di maturazione interiore tra le sofferenze, le angosce, le disillusioni della Grande Guerra, ritrovata la pace, seppero resistere alle lusinghe del fascismo e del nazionalsocialismo affermandosi nei rispettivi campi come integerrimo giudice, il Balestrieri, e valente geologo il Dyhrenfurt.
Storie parallele di due ufficiali che, con i loro uomini, rischiarono d’incontrarsi all’indomani dell’armistizio in un villaggio austriaco posto sotto il Passo di Resia. In quell’occasione l’ufficiale tedesco vide crollare, con la sconfitta degli imperi centrali e la disgregazione dell’esercito austro-ungarico, le chimere, le illusioni gli entusiasmi e i sogni di gioventù.
Viene qui offerta, per la prima volta, la traduzione italiana di alcuni frammenti tratti dal libro “Quadri di guerra e di pace” scritto da Dyhrenfurt. Vi si narra di una incursione dell’ufficiale tedesco in una zona presidiata dagli italiani rivisitata, da civile, alcuni anni dopo la “guerra d’aquile”.
Il gioco memoriale recupera antichi ricordi legati all’epopea dei kaiserjager che combatterono in quel settore riconoscendo lealmente il valore del nemico: ”Gli Alpini che ci stavano di fronte erano ragazzi in gamba, che meritano onore, quale onore!”.
Da ambo i lati del fronte gli scontri sulle montagne avvenivano con spirito cavalleresco. Come già si è detto, a quelle altitudini prevaleva la dimensione umana di soldati quotidianamente impegnati per tutti gli anni del conflitto a combattere non solo il nemico che avevano di fronte, ma avversità naturali fatte di freddo, gelo, umidità, valanghe.
La forza che accomunava quei soldati, da una parte e dall’altra, era lo spirito di corpo, di sacrificio, il sentirsi tutti uniti in un’unica famiglia al servizio di un radicato amor di patria.
I luoghi della memoria: cimiteri, ossari, parchi delle rimembranze, sono deputati a tenere vivo il ricordo degli uomini che compirono il loro dovere. Lorenza Fumagalli, generosa “spillatrice” di archivi che, in questa collana ha fornito preziosi materiali agli studiosi e cultori di memorie storiche, anche in questa circostanza ha condotto una accurata e puntuale ricerca su alcuni monumenti funebri del Bormiese ricostruendone la storia: progettazione, finanziamento, messa in opera, inaugurazione.
Il monumento ai caduti di Ponte offre ad Augusta Corbellini il destro di rievocare la figura del sottotenente Diego Guicciardi immolatosi sul Monte Pasubio mentre conduceva i suoi alpini all’attacco di una postazione nemica. Il nome dell’ufficiale è legato a un ricordo d’infanzia quando la studiosa lo vide, affiancato da una medaglia d’argento, inciso nel marmo accanto a quello di uno zio di suo padre. Molto anni più tardi la curiosità di un tempo fu appagata dalla lettura di un diario custodito nell’archivio della famiglia Guicciardi. Un memoriale in cui non vi è alcun accenno alla vita di trincea, alle emozioni provate al contatto diretto con il nemico, alla morte in agguato. Insistita, invece, è l’ostentazione di un falso ottimismo, a beneficio dei famigliari lontani, da parte di un giovane predestinato a sacrificare la sua vita per la patria.
Stefano Zazzi si avvale di alcune testimonianze fotografiche inedite per documentare l’efficiente organizzazione sanitaria durante gli anni della “Guerra Bianca” il cui punto di forza era costituito dalla villa Visconti Venosta di Grosio. Per le necessità meno urgenti gli avamposti nell’Alta Valle si trovavano a Bormio (infermeria della Croce Rossa) e a Santa Lucia (ospedaletto someggiato).
Dopo la disfatta di Caporetto le autorità decisero di ricoverare a Roma le opere artisticamente più pregevoli della Lombardia. Manuela Gasperi, direttrice del museo civico di Bormio, nel suo contributo dà contezza di quelle che furono tolte dalle chiese occupate per esigenze belliche e messe in salvo a Castel Sant’Angelo.
Daniela Valzer, da giornalista, si è più volte occupata dello sci e ne ha parlato diffusamente in altri contributi di questa collana. Ricorda qui gli albori di questa attività sportiva nei primi anni del Novecento e la sua successiva diffusione ad opera di “skiatori” locali che lo praticarono con successo anche sul più alto campo di battaglia registrato dalla storia.
Il tratto distintivo della personalità di Piercarlo Della Ferrera è la generosa disponibilità, non seconda alla sua grande competenza. Per la terza volta nell’arco di questo ultimo decennio ha accolto la nostra richiesta di curare l’apparato bibliografico delle opere più significative della presente collana.
Quando si dice il gioco del caso. Le immagini e i testi del calendario offerto dalla Banca Popolare di Sondrio per l’anno in corso si ispirano a testimonianze scritte dal fronte o inviate verso lo stesso curate da autori che non potevano non figurare nel sopra citato repertorio bibliografico.
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La microstoria, intesa come piccola storia attraverso lo studio di gruppi di persone, di fatti minuti, analizzati in un ambito ben definito spazialmente e temporalmente (nel nostro caso l’intero sotto-settore Valtellina durante la “guerra delle aquile”), guadagna sempre più titoli di merito agli occhi degli specialisti perché vi si possono cogliere utili suggerimenti che trascendono l’interesse localistico in una visione di respiro nazionale.
Piccole storie di alpini impegnati in marce faticosissime per rifornire la prima linea e di arditi che conquistavano, per la prima volta nella storia dell’umanità, postazioni avanzate in quote oltre i tremila metri, raggiunte con sforzi sovrumani.
Piccole storie assurte a leggenda per la tempra eccezionale degli alpini e dei loro avversari kaiserschützen che compirono audacissime imprese in condizioni atmosferiche proibitive tra la neve, il giaccio e il turbinio del vento.
Piccole storie della vita quotidiana nelle baite sotto la linea del fronte e nelle case delle retrovie ove le ristrettezze economiche avevano fatto nascere tra le donne dei richiamati alle armi (madri, sorelle, figlie) un esemplare esempio di solidarietà femminile.
Arrivò infine la sospirata pace che fu di breve durata. Irrisolte questioni scatenarono infatti un secondo immane conflitto mondiale. Le potenze europee che lo innescarono diedero poi vita nei decenni che lo seguirono a uno spazio comune, senza frontiere.
A distanza di un secolo, con l’arretramento dei ghiacciai imputabile ai mutamenti climatici, continuano ad affiorare lungo l’intera linea del fronte, trinceramenti, resti di baracche, costruzioni diroccate. Visibili indizi della guerra alpina.
L’oblio degli anni non deve però cancellare il ricordo degli alpini che vi combatterono, animati da un profondo sentimento del dovere. Gente di montagna aliena da ogni atteggiamento di retorica nazionalista e con un radicato amore per la patria.
Uomini “forti e buoni”. Così li ha ricordati Carlo Emilio Gadda, ufficiale degli alpini che lavorò come ingegnere in Valtellina prima di diventare un grande scrittore.
Ora l’odio contro l’avversario di un tempo affrontato, come si è detto, in condizioni talvolta disumane è fortunatamente un ricordo.
Negli stessi luoghi, dall’Ortles al Gavia, che videro le tragiche vicende della Guerra Bianca, ma anche la grande umanità dei militari che vi furono coinvolti, ora “su quelle cime gelide e solitarie, indicibilmente belle, regna di nuovo la pace che c’era prima del conflitto e che rammenta l’eternità”.
Con questo auspicio espresso da Heinz von Lichem, geografo delle Alpi ed esperto di scienza militare, da noi pienamente condiviso, ci congediamo augurando ai nostri fedeli e potenziali lettori buona lettura.
Non prima di rituali e doverosi ringraziamenti ai membri (studiose e studiosi) del cenacolo bormino afferente al Centro Studi Storici Alta Valtellina per le preziose testimonianze raccolte in questo volume, rivisitate con passione, competenza ed emotivamente coinvolgenti.
Un ringraziamento particolare va alle tre personalità accademiche delle nostre valli, diventate una costante di questi incontri annuali che, con la profondità e l’acume delle loro riflessioni, conferiscono spessore scientifico alle opere della presente collana.
“Rapsodia in grigioverde”, così Guglielmo Scaramellini, nostro geostorico di riferimento, intitola felicemente la sua introduzione che dà voce alla molteplicità e all’interesse delle testimonianze raccolte nel libro, orchestrandole sotto la spinta di una lettura appassionata e gratificante.
Questi frammenti di microstoria locale sono commentati alla luce di una abusata ma efficace metafora: “osservare attraverso il buco della serratura”. L’osservazione avviene però mediante un ribaltamento: lo sguardo della storia muove dall’interno verso l’esterno, ovvero il “vasto mondo”, appannaggio della grande storia.
La guerra è notoriamente uno degli assi portanti del discorso narrativizzato su cui poggia una parte consistente dell’immaginario collettivo. Come vuole la tradizione, la miscellanea si apre con un dottissimo saggio di don Remo Bracchi sulla “guerra” quale manifestazione di un continuo combattimento inflitto all’uomo dal destino e il cui percorso semantico, legato etimologicamente alle armi, procede da strumenti, utensili e conflitti che caratterizzavano ancestralmente la quotidianità.
Luisa Bonesio, nostra geofilosofa di riferimento, chiude in guisa di postfazione, il volume con un penetrante saggio in cui affronta la tematica della “guerra bianca” come terreno di scontro tra due logiche (il primitivismo vs la modernità industriale) con la montagna che gioca un ruolo preminente di “terzo esercito schierato”. Un ritorno alla primordialità assimilabile al gesto sportivo che spinge l’alpinista a conquistare la vetta e che, rafforzato dal senso del dovere, si tramuta in un’ascesa “di tutti i combattenti verso montagne diventate terreno comune”.
Come sempre, sentito è il ringraziamento rivolto al dott. Mario Alberto Pedranzini, consigliere delegato e direttore generale della Banca Popolare di Sondrio, per il sostegno finanziario alla pubblicazione di questo volume che vuole essere un piccolo contributo alle innumerevoli iniziative volte a celebrare il centenario della vittoria nella Grande Guerra. Non vi si è sottratta la Popolare di Sondrio dedicando a questa tematica il tradizionale calendario.