Recensioni e segnalazioni


Ilario Silvestri, Stefano Zazzi, Angela Martinelli, La chiesa della Madonna della Pietà di Turripiano, Solares, Bormio 2019, 89 pp.

“Qui mecum dolet, mecum gaudebit”: chi soffre con me, gioirà con me. Il motto che un tempo si leggeva sul timpano della facciata della Madonna della Pietà di Turripiano racconta i motivi della fondazione. Ben a ragione, pertanto, gli autori hanno voluto porlo come sottotitolo dell’opuscolo che, oltre a raccontare le fasi del meticoloso restauro da poco ultimato, curato dall’ingegner Stefano Zazzi e da Angela Martinelli, ripercorre – grazie alle indagini archivistiche condotte da Ilario Silvestri – la storia della chiesa. Voluta dal gesuita Paolo Sfondrati, un padre morto in odore di santità a soli trentasei anni, estenuato dalle pratiche di digiuno e dalle continue mortificazioni del corpo, la Madonna della Pietà doveva essere un manifesto della severa teologia post-tridentina. In particolare doveva esaltare il valore della sofferenza nella vita come pegno di un risarcimento dopo la morte. L’edificazione dell’edificio, che comportò spese ingenti per le contrade di Premadio, Molina e Turripiano (ma questue per la raccolta di fondi a favore dell’erigenda chiesa furono fatte in tutta la Valtellina, sino a Sondrio), fu portata avanti sotto la direzione dell’arciprete Cristoforo Peccedi, che dettò al pittore Gian Francesco Noale, autore delle decorazioni esterne, la già citata scritta sul timpano della facciata che invita ad accettare la sofferenza fisica per guadagnare il paradiso. Di mano del Noale anche l’ex voto che racconta il primo miracolo della Madonna di Turripiano, avvenuto a lavori in corso: per intercessione di Maria, Barbara Sgritta, caduta da un ponteggio mentre portava la malta ai muratori, era rimasta incredibilmente illesa. L’edificio fu realizzato senza risparmio di spese: furono chiamati a lavorare alla Madonna della Pietà, conclusa e benedetta nel 1699, i migliori artisti e artigiani locali come Gian Maria Donati, autore della parte scultorea, ed i Noale padre e figlio, ma anche “immigrati” come Ercole Procaccini il Giovane (di sua mano il Compianto che si può ammirare nell’ancona centrale), il trentino Pietro Noldino, Giovanni Antonio Fonstoner (sua la parte lignea dell’altare a sinistra) e Georg Telser, che realizzò la tela dell’altare laterale dove è rappresentata la famiglia della Madonna per celebrare l’Immacolata Concezione che, proprio in quegli anni, le istituzioni bormine avevano elevato al rango di festività obbligatoria per tutto il Contado. Da ogni punto della terra di Bormio inoltre, nel corso del Settecento, partivano dirette a Turripiano le processioni comunitarie per chiedere alla Madonna della Pietà l’intercessione per le piogge, necessarie per garantire un buon raccolto. 
(Daniela Valzer)

 

Studenti dell’Istituto superiore Alberti, Dagli Alberti all’Alberti, Solares Bormio 2019, 91 pp.

L’Istituto d’Istruzione Superiore Statale “Alberti” di Bormio avvia nel 2019 una serie di iniziative che hanno l’obiettivo di annodare legami con il territorio e fare in modo che gli studenti possano confrontarsi fattivamente con la realtà al di fuori del mondo scolastico. Tra queste iniziative ne vanno annoverate due di recentissima istituzione: la costituzione dell’associazione Alberti e la fondazione di una Collana Storica volta proporre piccoli contributi editoriali di interesse locale, il primo dei quali è il libretto intitolato “Dagli Alberti all’Alberti”. Vi si tratta brevemente della nascita di un moderno sistema scolastico a Bormio grazie alla donazione della benefattrice Caterina Alberti, che nel Seicento lasciò il suo palazzo alla Comunità vincolandolo a destinazione culturale ed educativa. Da allora il percorso formativo di tanti giovani studenti si è intrecciato con la storia del paese: l’arrivo dei Gesuiti e l’apertura di un Collegio per studenti, le controversie legate alle lotte di religione, l’avvento della Cisalpina e poi del Regno d’Italia, l’istituzione del Pio Istituto Scolastico, la gestione moderna del Liceo Alberti ad opera dei Padri Betharramiti ed infine la recentissima transazione tra Parrocchia di Bormio e Comuni Sociali per porre fine alle secolari controversie sulla proprietà e la gestione dei beni in questione. Tra le pagine, con un apparato fotografico di tutto rispetto (e alcune immagini rare della Bormio d’epoca), c’è spazio per il ritratto della famiglia Alberti, con alcuni di suoi membri più influenti, e per piccole curiosità che hanno segnato la loro storia e quella del Contado. Un lavoro eccellente eseguito dai ragazzi dell’IIS Alberti di Bormio nell’ambito di un progetto di alternanza scuola-lavoro: non troppo corposo, ma sicuramente ammirevole nell’aver riannodato il filo che dalle buone intenzioni di Caterina Alberti nel Seicento si è dispiegato sino al loro tempo e alla loro scuola.
(Anna Lanfranchi)

 

Dario Benetti (a cura di), I luoghi del vino, Cooperativa Editoriale Quaderni Valtellinesi, Sondrio 2018, 420 pp.


Fra i prodotti per cui è celebre la Valtellina, il vino occupa un posto di primo piano, anche se la sua produzione abbraccia solo una parte dell’intero territorio. Non stupisce, quindi, che si sia pensato di far rientrare pienamente il vino nel “marketing” turistico della Valle, promuovendo la candidatura Unesco dei terrazzamenti e dedicando al nettare rosso libri e addirittura percorsi enogastronomici (come la “Via dei terrazzamenti”). Ultimo in ordine di tempo il ponderoso volume dal titolo “I luoghi del vino di Valtellina”, frutto di una coralità di apporti (coordinati da Dario Benetti) che vogliono celebrare soprattutto il rapporto tra l’uomo valtellinese e il suo paesaggio, nella fattispecie quello profondamente e tenacemente legato alla produzione vitivinicola. Perché parlare semplicemente di vino e di vite è troppo riduttivo! Se si ha la pazienza di sfogliare queste pagine si scoprono che in ogni fazzoletto di terra si apre una vigna unica, non tanto per il vitigno quanto per il modo in cui viene coltivato e per il paesaggio in cui le piante si trovano immerse. Con un’indispensabile parte storica in cui si racconta l’antica importanza del vino nella Valtellina dei secoli scorsi, l’adattamento del paesaggio alla coltivazione della vite, le impostazioni architettoniche delle dimore per far spazio alle cantine, la regolamentazione del commercio del vino negli ordinamenti statutari, le ricadute economiche sulle comunità locali, l’evoluzione nelle tecniche di coltivazione, le prime forme di impresa industriale. Il libro è suddiviso geograficamente sulla base delle zone di produzione Grumello, Inferno, Sassella, Valgella, Maroggia, Valtellina Superiore, Alpi Retiche, mentre il vitigno è sostanzialmente lo stesso (Chiavennasca o Nebbiolo). L’ultimo capitolo è dedicato al re dei vini valtellinesi, lo Sforzato, che oggi è diventato un prodotto molto apprezzato. La viticoltura valtellinese è un miscuglio di varietà e di produzioni, dove accanto alle grandi aziende ormai affermate (che vengono presentate nel volume) sopravvivono ancora una miriade di piccolissimi viticoltori che realizzano vino in modo squisitamente artigianale, per uso familiare ma senza disdegnare di offrirlo a chi sa apprezzarne il gusto robusto.
(Anna Lanfranchi)