Valtellina terra di migranti


Valtellina, terra di migranti

Dalla prefazione di Guglielmo ScaramelliniAndare. Scelta, necessità caso

Leggendo i saggi, numerosi e ancor più profondi, che le amiche e gli amici di Bormio hanno scritto sul tema delle migrazioni, mi è parso che essi – pur riferendo in maggioranza di migrazioni dal luogo natio, vale a dire di emigrazioni – potessero, in verità, essere raccolti e coordinati fra loro più dal rispondere proprio a un “andare” generico che non a un “partire” per un luogo preciso: certo ci sono le forme di emigrazione e di corrispettiva immigrazione, proprie delle montagne e delle Alpi in specie nei secoli passati, durante l’Antico Regime e la Modernità, fino alla Contemporaneità, le quali mostrano l’esistenza di mete prefissate; ma ci sono anche casi di partenze verso un domani temporale più che un luogo fisico, oppure la risposta a vocazioni ideali, a spirito imprenditoriale o d’avventura, e altro ancora.

Dunque un “andare” (l’ir bormiese) in cui agiscono diverse motivazioni individuali e collettive che ho sintetizzato qui nei tre fattori scelta, necessità, caso, che spingono diversamente a tale “andare”, e ne condizionano mete, modalità, esiti, ma trovano rispondenza nel condizionamento ancor maggiore proprio della risposta data ai nuovi arrivati dalle genti che li ricevono e accolgono, in modi e con sentimenti diversi, ma anche – oggettivamente – i luoghi offrono loro, coi diversi esiti di successo o insuccesso che sempre accompagnano la storia dei singoli migranti o dei loro gruppi.

È possibile dunque, raggruppare i saggi in alcune sezioni tematiche, che qui di seguito si elencano, e commentarli brevemente.

Le grandi migrazioni fra Otto e Novecento

Daniela Valzer, Di America ci resta solo il nome. Il dramma dell’emigrazione nelle lettere dall’Argentina dei fratelli Giovanni e Giuseppe Valcepina
La storia narrata da Daniela Valzer è una tipica storia dell’emigrazione dalle nostre valli verso l’Argentina, una delle mete più classiche e frequenti dei nostri migranti fra il XIX e il XX secolo. Storia comune e per questo anche esemplare: frutto di una “catena migratoria” (un parente, un conoscente invita presso di sé, in un Paese lontano in cui vive, parenti e amici, che accettano), vede il consolidarsi colà dei legami fra compaesani o congiunti, che lavorano assieme, spesso mettono su famiglia fra loro, richiamano altri parenti, fino a radicarsi nel Paese d’accoglienza o – al contrario – al suo abbandono e al ritorno in patria. Quest’ultima scelta può essere il risultato di un successo (l’emigrante che “ha fatto fortuna” torna a godersela a casa) o di un insuccesso (così che sembra migliore la vita a casa propria che in un luogo lontano e inospitale). Ma c’è anche chi vorrebbe tornare ma non può, o chi vorrebbe restare ma è costretto a partire (come avverrà per molti emigrati allo scoppio della Prima Guerra Mondiale). Un po’ tutte queste circostanze si ritrovano nelle vicende dei fratelli Giovanni e Giuseppe Valcepina (originari proprio di Cepina), che emigrarono in Argentina, rispettivamente nel 1885 e nel 1887-8, invitati da uno zio paterno e una zia materna che già vi risiedono. Anche i primi lavori sono svolti, spesso, presso compaesani o conoscenti, così che l’inserimento è facilitato; poi però, i migranti, impratichiti nella lingua e nei costumi locali, prendono il largo e cercano fortuna da soli. Anche in questo caso il lettore troverà da sé ciò che gli interessa in queste pagine, ma una cosa si può anticipare: la “fortuna” non sempre dipende dalle capacità degli individui, ma dalle circostanze esterne in cui essi si trovano, inevitabilmente, ad agire.

Elio Bertolina, Quando si andava a Davos. Storia di Erminia
Più recente e assai meno avventurosa, ma non per questo meno affascinante, è la storia di Erminia C., nata a Teregua in Valfurva nel 1890. La testimonianza è raccolta dall’autore dalla voce della protagonista, che ad essa dà la freschezza e l’affidabilità di un racconto di prima mano (e in dialetto), pur molti decenni dopo i fatti. Adolescente, al seguito di fidati compaesani, si reca a Davos dove questi le hanno trovato un posto da bambinaia presso un ristorante gestito da valtellinesi (1904). Emozionante il racconto del viaggio di due giorni a piedi su per i passi alpini, per la prima volta lontano da casa, con l’arrivo sotto una fitta nevicata e la meraviglia della cittadina illuminata nella sera. Dopo il primo anno, il rientro (si tratta di emigrazione stagionale “lunga”, circa 11 mesi l’anno), il secondo, come cameriera del personale medico di un sanatorio; successivamente cambia lavoro, ma sempre presso strutture complementari ai sanatori. Nel 1910 passa a S. Gallo, dove diventa esperta lavorante di pizzi; qui conosce un muratore veneto, Giovanni P., che sposa nel 1912 e da cui avrà due figli. Nel 1914 lo scoppio della guerra costringe i migranti, che non dispongano di 1000 lire per nucleo famigliare da lasciare come deposito cauzionale, a rientrare in patria: Erminia, il marito e i figli piccoli affrontano un viaggio “allucinante” (ma alleviato dalla generosità gratuita di un conoscente), che chiude una fase della vita che la protagonista narra con trasporto all’autore, il quale, da par suo, la rende fresca ed emozionante.
 
Simona Mazza, Brevi cenni storici in tema di Emigrazione
Una grande istituzione benefica milanese, la Società Umanitaria (fondata nel 1893 per volontà e con un grandioso lascito dell’imprenditore Prospero Moisè Loria), promosse, fra molti altri progetti di carattere sociale, anche la formazione di istituti destinati ad “aiutare ed affiancare coloro che scelgono l’espatrio”. Per iniziativa dell’Umanitaria, dunque, nel 1910 nacque a Tirano – perché epicentro di un’area di grande emigrazione, ma anche perché vi operava come veterinario comunale un giovane adepto della Società milanese, Bernardino (Dino) Mazza – l’Ufficio Provinciale del Lavoro e dell’Emigrazione che, grazie all’opera appassionata sua e di alcuni collaboratori (ma anche a un cospicuo legato testamentario della Signora Cosmina Foppoli) poté assistere un gran numero di migranti e aspiranti tali mediante un periodico (La Fiaccola), scritti informativi (perfino un romanzo, pubblicato sotto pseudonimo, sulla vita di un migrante in Australia, verso cui molti Valtellinesi si dirigevano), sostegno tecnico, morale, finanziario, giuridico, sia in patria che all’estero. L’Ufficio crebbe e prosperò, aprendo delle succursali in provincia e in Svizzera, fino a quando il nuovo regime allontanò da Tirano (di cui era sindaco nel dopoguerra) il socialista Mazza, affidandogli un ufficio governativo in Germania per la gestione di parte delle riparazioni di guerra dovute da quel Paese (1922), ma annullandone del tutto il ruolo sociale.
 
Bruno Ciapponi Landi, Gli studi sull’emigrazione valtellinese e valchiavennasca in Australia
L’autore, da funzionario provinciale e direttore del Museo Etnografico di Tirano, nel corso degli ultimi decenni ha svolto un’intensa e fondamentale attività di promozione dell’interesse e degli studi sull’emigrazione, sulla sua storia e i suoi caratteri intrinseci, sia favorendo prese di posizione istituzionali verso le comunità di nostri migranti all’estero, sia promuovendo e organizzando ricerche e incontri scientifici sul tema. Importantissimi i viaggi organizzati per l’Australia, che hanno aperto grandi opportunità di collaborazione con le comunità valtellinesi e con le autorità di quel Paese, fra cui alcuni tiranesi, che rivestivano cariche di grande importanza. Il saggio dà conto – modestamente, senza ricordare chi ne fu l’iniziatore – di tali attività, riferendo anche i principali risultati conseguiti: del resto l’emigrazione valtellinese in Australia fu la prima e a lungo la più consistente da terra italiana in quel continente. In proposito si dispone ormai di una validissima e cospicua documentazione bibliografica e iconografica, nonché di schemi di lettura e interpretazione assai interessanti, anzi, esemplari per tali tipi di ricerca.

Non solo emigrazione

Daniela Valzer, Pegorari tesini: migranti al ritmo della transumanza
Un primo tipo di immigrati (temporanei) in terra bormina è quello dei cosiddetti “pastori tesini”, ovvero i conduttori di grandi, spesso enormi, greggi di ovini che soprattutto dalla Bergamasca e dal Bresciano salivano agli alti pascoli del Bormiese, già nel Medioevo, ma soprattutto in Età moderna e anche oltre. La destinazione dei pascoli (prima in uso ai pastori locali) a quelli stranieri provocò forti reazioni degli abitanti delle Valli, ma gli introiti che l’affitto procurava al Comune furono decisivi perché le proteste non sortissero effetto. La vita primitiva di questi pastori, isolati in aree elevate e lontane dagli abitati, l’alimentazione povera, l’abbigliamento primitivo, la continua vita all’aperto, ne facevano dei reietti, quasi dei semi-selvaggi agli occhi di contadini e borghigiani; le loro rare discese a valle comportavano spesso problemi a loro stessi e ai residenti a causa dell’ubriachezza e degli atti di violenza, anche sessuale, cui talora si abbandonavano. Le cronache del tempo ne ricordano alcuni, che forse hanno lasciato dei “pastori tesini” un’immagine peggiore di quanto essi, in realtà, meritassero.

Anna Lanfranchi, L’immigrazione straniera a Bormio. Prime ipotesi sulla base dei dati dei registri parrocchiali
Nonostante tutte le precauzioni (e talora gli ostacoli) che le norme statutarie e amministrative ponevano all’insediamento e alla vita dei forestieri (trovare chi garantisse per loro o disporre di una grossa cifra come sigurtà di ben vivere, che ne garantisse la solvenza in caso di problemi economici o giuridici), gli stranieri che si stabilirono a Bormio nel corso dei secoli furono numerosissimi: provenienti dalla Valtellina o dallo Stato di Milano, ma soprattutto dal confinante Tirolo, dal quale gli immigrati furono numerosissimi, dando vita a nuclei famigliari che, col tempo, sono diventati “bormini” a tutti gli effetti. È proprio all’immigrazione dall’area germanica che l’autrice dedica la sua ricerca, analizzando e commentando i flussi registrati negli atti parrocchiali, dal s. XVII (i primi casi documentati risalgono al 1655) alla fine del XIX. Di quasi tutti si conoscono le professioni (si tratta in prevalenza di artigiani, ma anche di artisti, braccianti, personale domestico, in specie femminile, nonché persone in cerca di fortuna, come sappiamo, non bene accette). Di alcuni di essi è stato possibile ricostruire le storie famigliari, il loro inserimento locale (spesso si sposano con uomini o donne del posto), le loro diramazioni (la loro prolificità fu spesso altissima) e il progressivo fondersi nel corpo sociale bormino (del borgo assai più che non delle Valli). Uno spaccato di vita che mostra chiaramente come l’idea che le Alpi, anche nei momenti di minore sviluppo, siano sempre state delle aree “aperte” e non “chiuse” verso l’esterno.

Lorenza Fumagalli, Forestieri di passaggio: emigranti o emarginati?
La conoscenza profonda e puntuale della documentazione archivistica civile dell’antica Comunità di Bormio consente all’autrice di affrontare il tema delle migrazioni da e verso l’Alta Valle da una prospettiva stimolante e insolita: essa mostra, per così dire, il “lato oscuro” di una comunità sociale e culturale che della coesione interna e del rigido rispetto delle norme collettive (scritte e orali, giuridiche e comportamentali) ha fatto un’arma di sopravvivenza in un ambiente ostile per morfologia e clima. Donde le regole rigidissime che normano la vita economica e sociale dei forestieri (graditi, naturalmente, se utili alla vita della collettività, ma sottoposti a vincoli e precauzioni; sgraditi e quindi allontanati se sospetti di vivere a spese della comunità), ma anche della popolazione locale (in specie femminile, come sempre: punendo le madri nubili e soprattutto le sospette di stregoneria, per le quali la prospettiva migliore era l’esilio, volontario o coatto), per motivi di moralità ma anche di finanza pubblica. Si tratta di una serie di disposizioni destinate all’autotutela conservativa della società locale, che tendono a impedire o almeno controllare le potenziali devianze dalla norma; forse è anche per questo motivo che la Riforma non attecchì nel Bormiese (ma di questo si dirà più avanti). Ciò non di meno, un gran numero di forestieri si insediò sul territorio bormino, specie nella Terra Mastra, segnandone profondamente storia, cultura, economia e inserendosi perfettamente nella società locale.

Manuela Gasperi, Un curioso dipinto di un pittor tedescho: Giovanni Giorgio Tesler
Giovanni Giorgio Telser non è fra gli stranieri residenti a Bormio e presenti nei registri parrocchiali, ma è comunque sposato con una bormina di buona famiglia (de Donati); è nato a Schluderns (Sluderno) in Val Venosta nel 1710 ed opera a Bormio fra il 1757 e il 1781, ma lavora anche in Valfurva, Valdidentro, Sondalo e forse in Valchiavenna (per i ritratti di alcuni membri della famiglia Vertemate, 1765). Si presume sia morto a Bormio verso il 1790. Fra le opere del Telser (cui si riconosce migliore resa nei dipinti a fresco che in quelli a olio), l’autrice illustra la raffigurazione allegorica della Giustizia, per le cui fattezze il tirolese Telser sceglie quella della sua sovrana, l’imperatrice d’Austria Maria Teresa d’Asburgo (1777). Un personaggio di non grande rilievo artistico, il nostro tirolese, ma significativo dei rapporti quasi di simbiosi che, nei secoli passati, esistevano fra le nostre alte valli e i territori confinanti, anche di lingue e culture diverse.

Daniela Canclini, Enrico Bassi, Al buio tutti i gatti sembrano leopardi. Storia di vite straniere nella comunità bormina
In questa rassegna siamo ormai giunti all’oggi, al febbraio del 2019. Il saggio si occupa infatti dei migranti, in prevalenza africani, ma anche asiatici, che giunti in Italia sui famigerati “barconi” (poi divenuti “gommoni”) partiti soprattutto da Libia e Tunisia, sono stati distribuiti sul territorio nazionale in piccoli gruppi, presso le strutture disposte ad accoglierli e offrire loro ospitalità, formazione, opportunità di inserimento sociale e lavorativo. Insomma l’accoglienza all’interno di un “centro SPRAR” (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) istituito presso l’Hotel Stella di Bormio. Un gruppo di giovani e giovanissimi, provenienti da 15 Paesi diversi, giunge dunque nell’estate del 2015: se non è sgomento, per gli uni e gli altri, poco ci manca: come prima cosa occorre trovare come vestirli adeguatamente per un soggiorno alpino, che nessuno di loro sa che cosa significhi; poi riuscire a comunicare, non solo verbalmente, e quindi come rapportarsi con loro, acquistare e ricevere fiducia, capirsi reciprocamente … Inizia in quel momento un processo per cui, dicono gli autori nella loro prosa quasi poetica, “da quel giorno, Bormio, non è stato più lo stesso. Si è diviso, ma ancora più intensamente unito”: semplici cittadini, volontari, le istituzioni civili e religiose, si mettono in gioco e iniziano un percorso che non conoscono e non sanno dove li porterà: ma qualcosa si deve fare, non si può non fare. Nel 2016 nasce l’associazione no profit Rueido, che prenderà in mano le operazioni e le condurrà in porto, assieme agli altri attori, fino alla chiusura degli SPRAR di fine gennaio 2019. I volontari che hanno operato in questi anni sono a ragione orgogliosi di quanto hanno fatto e ottenuto nel processo di integrazione di questi migranti, ed è giusto che lasci loro le parole per esprimerlo e al lettore il piacere di scoprirlo. A noi tocca soltanto il compito di ricordare come chiunque (i fratelli Valcepina in Argentina, la signora Erminia in Svizzera, i “tedeschi” e “tesini” a Bormio, i valtellinesi in Australia …) lasciando la propria terra – mai a cuor leggero, spesso con dolore, sempre con preoccupazione – ha cercato un luogo, della gente, un ambiente che lo accogliesse e ospitasse con tolleranza se non con benevolenza: così hanno fatto i bormini con questi ragazzi che giungevano da tanto lontano, senza nulla, forse neanche un sogno, in tasca.
 
Andare

Cristina Pedrana, Dall’Alta Valle in missione nelle lontane terre di India e Cina
Un esempio proprio di questa “apertura” – addirittura a un mondo lontanissimo com’era allora l’Asia – è la vicenda narrata dall’autrice, che illustra le storie di alcuni missionari che dall’Alta Valle si sparsero per il mondo, già da tempi assai lontani. La profonda religiosità della popolazione, ma anche la presenza di una scuola come il ginnasio dei Gesuiti a Bormio (dal 1580, pur con l’interruzione delle Guerre di Valtellina), permisero la formazione culturale della popolazione bormina in misura insolitamente estesa per i tempi, non solo in montagna. Due di queste storie appaiono di straordinario interesse: quella del francescano Giovanni Battista Pedranzini (al secolo Francesco, 1711-1761), missionario in Cina e autore di una relazione finora inedita, e quella del carmelitano scalzo Vincenzo Maria Murchi (al secolo Antonio, 1626-1679), inviato papale in India come componente di una missione che doveva comporre uno scisma nato in quel lontano paese fra sostenitori di riti diversi. Viaggio che fu l’occasione per la pubblicazione di un resoconto completo e approfondito sull’India che, pubblicato a Roma nel 1672 come Il viaggio alle Indie orientali, ebbe numerose edizioni e grande apprezzamento fra gli studiosi fino a oggi. È una relazione ampia e affidabile su tutti gli aspetti dell’India visitata dall’autore, che Cristina Pedrana presenta in maniera sintetica ma assai suggestiva. Non priverò i lettori del piacere di sincerarsene di persona.

Cristina Pedrana, Emigranti dall’Alta Valle a Salò ma anche più lontano!
Emigrazione, invece, d’Antico regime quella illustrata da Cristina Pedrana in questo saggio: un cittadino di Bormio, Bernardo Antonio Rini (nato nel 1708) si trasferisce a Salò, Stato veneto, dove apre una bottega di calzolaio (secondo una radicata tradizione bormina) e una produzione di filo di refe; si sposa ed ha sei figli. La sua intraprendenza gli consente di crescere economicamente e socialmente, di acquistare casa e prestigio, così che i figli occupano anche cariche pubbliche locali e avviano i loro figli a prestigiose professioni intellettuali. In particolare si ricordano i figli di Pietro Antonio: Giovanni Battista (1795-1857) fu medico di fama, ma il personaggio più famoso e interessante fu Andrea (1790-1846) che, combattente in Spagna nell’esercito napoleonico, entrò poi nella Carboneria e, fallito il moto antiaustriaco del 1821, da Genova andò esule prima in Spagna e poi in Sud America. È proprio Andrea Rini che il giovane Giuseppe Mazzini vedrà come “Un uomo di sembianze severe ed energiche, bruno, barbuto e con uno sguardo scintillante che non ho mai dimenticato” e che lo spingerà ad abbracciare la causa nazionale divenendo un “Padre della Patria”. Passato, dopo la sconfitta dei liberali, dalla Spagna al Sud America, vi diverrà proprietario di un emporio e di una nave con cui commercerà sul Mar de la Plata e sul Rio Paranà; più tardi incontrerà anche Garibaldi durante la rivolta della Repubblica del Rio Grande contro il Brasile, venendo coinvolto in episodi poco chiari. Perirà nel naufragio della sua nave sul Rio Uruguay.

Gisi Schena, Il girovago pintor di meridiane. Le meridiane del Capitano D’Albertis in Alta Valtellina
Il capitano di marina (prima militare: combatte a Lissa nel 1866; poi mercantile, passa fra i primi il canale di Suez) Enrico D’Albertis (1846-1932) è personaggio di tutt’altro genere da quelli appena illustrati: per cominciare non è bormino né tirolese, né grigione o valtellinese; è genovese e appartiene a una famiglia facoltosa: ciò che gli permette di vivere viaggiando (e non gli impone di viaggiare per vivere), e viaggiare, dopo le prime esperienze su navi altrui, su imbarcazioni di sua proprietà: prima un piccolo cutter, il Violante, e poi uno più grande, il Corsaro, col quale fa per tre volte il giro del mondo. Lascia relazioni e ricerche su vari argomenti naturalistici, e non solo; scatta migliaia di preziose fotografie; costruisce un castello di forme eclettiche sulle alture di Genova, là dove, ora, la sua biblioteca e i materiali raccolti in tutto il mondo, dal 2004, sono a disposizione del pubblico. Ovviamente il D’Albertis non giunge a Bormio via mare, ma per passare le acque, come allora si usava nella buona società. E in Alta Valtellina lascia quattro esemplari di ciò che costituì un’altra delle sue grandi passioni: la realizzazione di meridiane, ovvero di orologi solari. Fra le 107 prodotte, due sono sugli edifici, rispettivamente, dei Bagni Vecchi (1900) e dei Bagni Nuovi (1894), una sulla villa Martinelli a Turripiano in Valdidentro (1894) e una sulla pensione Alpina di Livigno (1900). Interessanti e intriganti i motti, sovente latini, che accompagnano sempre le sue meridiane per ricordare il significato che lo scorrere del tempo ha per l’esistenza umana.

Appendice di Piero Gaggioni, Mea vobis umbra lux
L’autore illustra in termini scientifici il senso generale e i caratteri costitutivi degli orologi solari (il termine “meridiana” passa dall’indicare l’ora del mezzogiorno a denominare l’intero orologio), il loro funzionamento e quindi il metodo della loro lettura (oggi chi saprebbe leggerle e comprenderle correntemente?); inoltre descrive puntualmente i quattro esemplari alto-valtellinesi e illustra che cosa sarebbe opportuno fare per la loro migliore conservazione. Del resto si tratta di oggetti d’interesse culturale oltre che storico, ma anche della memoria di un affascinante giramondo misuratore del tempo.

Raffaele Occhi, Migranti d’alta montagna. Vecchie guide dell’alta valle fra le Alpi e il Caucaso
Tra le nuove professioni tipiche della montagna, ma derivate dalle tradizionali attitudini dei loro abitanti, c’è quella della guida alpina: montanari che per la loro abilità a muoversi su terreni impervi e pericolosi, divennero gli accompagnatori degli intrepidi aristocratici e borghesi che, soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, sfidarono sé stessi e gli altri nella “conquista dell’inutile”, nella salite delle vette delle Alpi e di altre catene montuose, realizzando imprese leggendarie ma anche provocando e subendo lutti immani. In queste attività i montanari – che per loro conto non l’avrebbero mai fatto – appresero o crearono tecniche sempre più ardite di salita su roccia, su ghiaccio, su terreni misti, divenendo professionisti di altissima qualità.
In questo mondo le guide alto-valtellinesi giunsero più tardi di quelle svizzere, savoiarde, valdostane, austriache, ma presto ne raggiunsero le capacità e il coraggio: non solo sulle “loro” montagne, ma anche su Monte Rosa, Cervino, Monte Bianco … Di alcune di queste guide e dei loro abituali e spesso affezionati clienti tratta l’autore: Battista Pedranzini e Damiano Marinelli (periti assieme sul Monte Rosa nel 1881); Luigi Bonetti e il triestino Julius Kugy fra il 1885 e il ’92; Battista Confortola, poi suo figlio Bernardo, e Vittorio Ronchetti dal 1902 al 1910, scalarono anche delle vette sul Caucaso, che lo stesso Ronchetti salì con un altro forbasco, Stefano Schivalocchi, nel 1910.
 
Conclusioni

Remo Bracchi, Valtellina terra di migranti
Il contributo dell’autore alla messa a fuoco glottologica del fenomeno migratorio valtellinese e valchiavennasco si occupa, quest’anno, delle ricadute che l’esperienza in luoghi linguisticamente diversi da quelli di provenienza hanno sul parlato e quindi sull’idioma delle comunità di partenza e di arrivo. Non si può però dimenticare la premessa indispensabile e assolutamente condivisibile che Remo Bracchi fa per spiegare la “straordinaria varietà dei dialetti che nell’uso quotidiano delle valli dell’Adda e della Mera intessono una trama multicolore” all’interno di un territorio sì vasto e morfologicamente variegato, ma relativamente compatto. Esso è infatti riconducibile a un vasto bacino fluviale principale, ma ricco di grandi e piccole convalli (quello dell’Adda), a uno minore, ma ugualmente ben delineato (quello di Mera-Liro, con l’appendice renana della Val di Lej, peraltro senza popolamento stabile) e uno ancora minore, ma abitato tutto l’anno (anzi, oggi l’inverno più che l’estate), insistente nel bacino dell’Inn e quindi del Danubio (quello dello Spöl, come si dice oggi). In questa trama – delineata peraltro a grandi linee – si inserisce un sistema di insediamenti estremamente articolato per posizione rispetto a: fondovalle, altimetria, esposizione al sole, accessibilità, consistenza ed evoluzione demografica, risorse economiche, opportunità esistenziali, rapporti con l’esterno, considerando anche la situazione di area di confine non solo politico ma pure linguistico fra italiano, tedesco e romancio …, ognuno con le loro varianti e articolazioni locali.
Insomma, da questa realtà l’autore trae due “domande, tra loro apparentemente contraddittorie”: la prima “riguarda un’impressione generica di frantumazione”, e dunque perché vi “si riscontra una tanto rimarcata varietà di inflessioni, di colorazioni fonetiche, di scelte lessicali”; la seconda nasce invece dalla costatazione che, allargando “il proprio sguardo al di là dalle angustie regionali” e “dilatando le conoscenze risulta il riflesso di un fenomeno assai più diffusamente irradiato”: forse che a una “trama nascosta è connesso un disegno di così vaste dimensioni?”.
È su questo duplice binario che procede l’analisi del glottologo, il quale, da par suo, si muove in una materia amplissima per la vastità dell’area spaziale e per la profondità dell’ambito temporale analizzati, entrando nei complessi e minuti meandri dell’evoluzione linguistica delle parlate locali, ognuna portatrice di specificità ma anche di comunanze, locali e regionali, nonché di apporti ricevuti dall’esterno secondo processi diversi, originati da circostanze differenti.
Una prima circostanza è riconducibile alla storia di medio periodo, in cui la prassi giuridica e politica della dominazione grigione (1512-1797) ha influenzato il linguaggio pubblico mediante termini di origine germanica (integratisi con quelli del latino medioevale e dell’italiano regionale dell’epoca visconteo-sforzesca), ma un ruolo certo maggiore hanno avuto i numerosi immigrati dal finitimo Tirolo, che giungevano in Alta Valle per svolgervi lavori di vario genere (artigianale, agricolo, forestale, domestico, minerario), ad arricchirlo con termini tecnici e modi di dire specifici.
Ma è soprattutto l’emigrazione della gente locale in altri Paesi, vicini e lontani, ad avere influenzato i nostri linguaggi: ovviamente, quanto più duratura e continua è stata la dimora in quei luoghi, tanto maggiore è stato l’apprendimento (anche sommario) della lingua, ma soprattutto dei gerghi professionali, e quindi il progressivo adeguamento ad essi, con l’accettazione di nuove locuzioni e perfino con la loro sostituzione alle vecchie in uso nei luoghi d’origine, quando vi tornavano.
Tale uso innovativo rispondeva a diverse esigenze od opportunità, secondo i contesti e i soggetti: l’uso della parola nuova (e la sua successiva adozione in ambiti più larghi, fino a una generalizzazione del suo uso) poteva consentire l’individuazione di un oggetto, un comportamento, un’usanza, prima sconosciuti e quindi senza nome; oppure una maggior precisione nell’esposizione dei fatti, o ancora il desiderio di stupire gli astanti, oppure di creare confidenza all’interno di un gruppo (professionale, sociale, d’età, di provenienza) o, al contrario, di separazione ed esclusione di quanti non intendono il significato delle parole; in altri casi l’intento è ironico o derisorio; insomma, l’adozione di nuovi termini o modi di dire può rispondere a una serie di esigenze e intenti – e sortire effetti assai diversificati – a seconda delle circostanze e dei contesti in cui le innovazioni lessicali sono introdotte.
Gli ambiti in cui gli apporti linguistici esterni hanno maggiormente influito sulle parlate locali sono soprattutto il lavoro (per indicarne i tipi, gli attrezzi, le operazioni svolte, i prodotti finiti), l’abbigliamento, l’abitazione e le tecniche di costruzione (anche per l’importanza dell’attività edilizia per i migranti di Otto-Novecento), l’economia, l’alimentazione, il gioco, i caratteri fisici e i comportamenti (soprattutto se difformi o insoliti), per cui i termini negativi, perché non compresi dai destinatari o per il suono spesso aspro, sono spesso usati come contumelie e maledizioni …
Gli apporti numericamente maggiori appaiono quelli derivanti dal tedesco, in prevalenza tirolese e svizzero (per motivi di prossimità geografica, e quindi per i rapporti diretti dovuti a un’emigrazione di lunga lena sia in entrata che in uscita, poi intensificatasi soprattutto verso la Svizzera); meno numerose, nonostante la lunga e duratura frequentazione, sono le adozioni da romancio e veneto, nei confronti di quali potevano esistere rapporti di contiguità linguistica; quelli dall’inglese sono invece comparsi e affermati dalla fine dell’Otto e dall’inizio del Novecento, con l’emigrazione in America settentrionale e in Australia. Oggi, naturalmente, i nuovi anglismi non sono più dovuti a frequentazione diretta dei Paesi d’oltremare, ma alla onnipresenza dell’inglese in tutti gli ambiti della comunicazione e della vita lavorativa.
In conclusione, la grande e pervasiva adozione di vocaboli e modi di dire di origine straniera nelle nostre parlate locali (spesso avvenuta in maniera indipendente da un luogo all’altro, come dimostrano anche le diverse forme verbali assunte) ci pare sia stata (e ancora sia) una testimonianza concreta della disponibilità dei nostri emigrati, in primis, e poi della popolazione locale ad adottare tutto ciò che di buono e di utile (materialmente e simbolicamente) si trova nelle realtà “straniere” (anche quando, in realtà, gli “stranieri” erano i nostri) e ad importarlo presso le comunità di origine, che, a loro volta, lo adottavano in maniera permanente. Dimostrandosi, quindi, “aperte” a nuovi e produttivi apporti, di parole, cose e, naturalmente, persone.

La disputa sulla “chiusura” e l’“apertura” delle Alpi (e quindi della montagna in genere: ma, in proposito, qualche cautela va mantenuta, data la necessità di puntuali ricerche sul campo e negli archivi) si può dire (quasi, poiché la ricerca non è mai definitiva) risolta con l’affermazione della storicità di tali caratteri (e cioè secondo i tempi e i luoghi), ma con una sostanziale prevalenza dell’“apertura” rispetto al suo opposto. Contributo fondamentale a tale soluzione diede lo storico svizzero Jean-François Bergier col famoso e fondante saggio sul “ciclo medievale” delle “Alpi aperte”, contenuto nel primo volume dell’opera curata da Paul Guichonnet (Histoire et civilisation des Alpes, 1980). Se tale saggio individua, in chiave geostorica, l’“apertura” delle Alpi nel Medioevo (e la successiva “chiusura” in Età moderna), una decisa presa di posizione nello stesso senso, ma in chiave socio-economica e culturale, si ritrova nel volume del già citato antropologo piemontese Pier Paolo Viazzo Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi da XVI secolo a oggi (edito in inglese nel 1990 e in italiano nell’anno successivo), nel quale approfondite indagini demografiche e sociali (natalità, nuzialità, mortalità, destinazioni, professioni, condizioni sociali ed economiche dei migranti) consentono di rimettere in discussione la nozione di “società chiusa” e attenta soltanto a mantenere i livelli di popolamento ridotto compatibili con la scarsità delle risorse (“regime demografico a bassa pressione”) a favore invece di una “società aperta” ai rapporti con l’esterno e pronta a modificare i propri comportamenti (anche economici) secondo le circostanze, anche contingenti. È questo, evidentemente, uno dei fondamenti sui quali si è basata la revisione storiografica delle migrazioni di cui si è detto addietro. Io stesso, studiando il mondo alpino, dagli anni Ottanta mi sono mosso lungo questo solco, ma non mi dilungherò sul tema.

A proposito, però, della storica attitudine sociale e culturale all’“apertura” o alla “chiusura” verso l’esterno (e il lontano) della comunità bormina ma soprattutto della Terra Mastra, mi pare si possa azzardare un’ipotesi: il momento di massima fioritura per Bormio fu la seconda metà del XV-primissimi anni del XVI; poi una serie di fatti concatenati che la riguardano, direttamente o indirettamente (la liberalizzazione del commercio del vino di Valtellina da parte dei grigioni e quindi la perdita del monopolio del suo trasporto da parte del Comune; l’istituzione, nel 1514, della fiera di Tirano, rapidamente divenuta la stanza di compensazione dell’economia “internazionale” del quadrante nord-orientale di Lombardia-Tirolo-Grigioni orientale; l’apertura alle nuove correnti commerciali della strada del Bernina; la conseguente crescita economico-sociale di Tirano), provocarono la perdita del controllo bormino sul traffico del vino e di tutto ciò che attorno ad esso ruotava. La comunità dovette ripiegare su sé stessa e massimizzare il valore delle risorse di cui già disponeva: l’affitto dei pascoli ai pastori tesini a scapito dei valligiani (di cui parla Daniela Valzer) ne è un esempio, ma il controllo rigido sui forestieri e le loro attività economiche (compreso il possibile accattonaggio) ne è un altro (come mostra Lorenza Fumagalli).
Una comunità consapevole di sé stessa e gelosa della sua indipendenza amministrativa, economica e culturale è, in queste condizioni, portata quasi inevitabilmente (se non necessariamente) a “chiudersi” e ad ‘arrangiarsi’, per così dire, con ciò di cui dispone: anche a costo di auto-limitarsi fortemente (ovviamente la stretta è tanto più forte quanto più sono deboli i soggetti cui si applica). Come dicevo più indietro, è forse per questi motivi che nel Bormiese la Riforma religiosa non trova spazio, anche prima che vi prendessero dimora i Gesuiti. La “longevità” istituzionale, dunque, è pagata con l’immobilismo sociale ed economico, a dispetto del (mediamente) alto livello d’istruzione dei cittadini del borgo: lo stesso Roberto Celli, grande estimatore della “democrazia comunale” bormina non può non rilevare che “proprio il ceto popolare appare fermo fino al fanatismo nell’avversare i tentativi, tendenti a sostituire l’antica costituzione con un nuovo regime ispirato alle idee giacobine”: è ben vero che le idee (ma promosse con un tentativo di colpo di stato) di Galeano Lechi e dei suoi seguaci erano particolarmente dirompenti, ma l’atteggiamento della popolazione bormina non sembra diverso da quello generalmente praticato in precedenza.
Proprio quest’ultima considerazione mi spinge a fare un confronto con quanto avviene a Chiavenna negli stessi anni (absit ogni sospetto di campanilismo): le vicende dei due borghi pede-alpini (pur con tutte le diversità del caso: posizione geografica, altimetria, composizione socio-demografica, storia istituzionale, struttura economica) erano state sostanzialmente parallele, quelle di due località di transito in senso Nord-Sud ed Est-Ovest che consentono il collegamento fra spazi economici complementari (pur con qualche sovrapposizione sulla direttrice engadino-tirolese).
Con l’avvento della dominazione grigione le cose cambiano decisamente, però, portando a una divergenza dei due processi di sviluppo: di quello bormino (involutivo) si è testé detto; quello chiavennasco prese invece uno slancio ancora maggiore: i traffici si potenziarono ulteriormente, consentendo un progressivo sviluppo del settore mercantile, ma anche delle strutture produttive (come l’industria serica). Ma un fatto di portata (allora) incalcolabile diede una svolta ancora più rilevante alla vita del borgo: la libertà di culto concessa per legge agli aderenti alla Riforma, non solo locali, ma anche forestieri. Similmente ad altre località delle terre suddite delle Leghe, Chiavenna (come Piuro) divenne meta e residenza di protestanti di varie tendenze confessionali provenienti da tutta Italia, ma anche da Nord, ospitando una comunità numerosa (e assai litigiosa al suo interno), che ebbe grande importanza culturale, sociale, economica. Fonti cattoliche coeve affermano che, ai primi del ’600, un terzo della popolazione fosse riformata.
La vita culturale del borgo era dunque vivacissima (e talvolta un po’ turbolenta) per le discussioni teologiche che si udivano ovunque (perfino all’osteria, si disse); circolavano libri di teologia ma anche di autori classici e moderni; mercanti e intellettuali stanziali o di passaggio ravvivano strade, piazze, chiese (tre quelle riformate), luoghi di ritrovo pubblico. Insomma, s’impose l’“apertura” verso ciò che e chi veniva dall’esterno: ne è testimone anche il continuo e profondo ricambio non soltanto delle classi dirigenti del comune, ma anche della stessa popolazione cittadina, che seguita, ancora oggi, a rinnovarsi con l’immissione di soggetti provenienti da vicino, dalle valli circostanti, e da lontano (ma aderendo a un riconosciuto genius loci, almeno fino all’attuale fase di generale omologazione culturale).
Così, mentre il centro di Bormio rimase caratterizzato da forme e spazi tardo-medievali (che ancora ne determinano il fascino e la suggestione), Chiavenna assunse le forme rinascimentali che la contraddistinguono; in entrambi, poi, il periodo barocco ha lasciato eleganti testimonianze.
Le cose cambiarono nei primi decenni del ’600: Piuro scomparve del tutto, in pochi minuti, il 4 settembre 1618 per lo scoscendimento del Monte Conto; la comunità riformata di Chiavenna fuggì, precipitosamente ma senza azioni di disturbo da parte dei cattolici, il 30 ottobre 1621 per l’ingresso nel borgo delle truppe ispano-milanesi (secondo le fonti, furono uccise da tre a cinque persone, fra cui un cattolico grigione che pensava di non aver niente da temere). Questa non fu però la fine definitiva della comunità riformata di Chiavenna: benché il trattato di pace fra Corona di Spagna e Grigioni (il Capitolato di Milano del 3 settembre 1639) ne impedisse l’esistenza formale, ancora a metà Settecento dimoravano nel borgo più di 200 protestanti, in prevalenza forestieri, ma anche locali che tenacemente non se ne erano andati, come invece prevedeva l’accordo di pace.
Di grande interesse sarebbe l’analisi di quanto avvenne – dai medesimi punti di vista – in Valtellina, ma non c’è modo di occuparcene qui in maniera adeguata, anche per la complessità delle situazioni territoriali, culturali, sociali, economiche, istituzionali dei tre Terzieri, che erano formati da comuni fra loro molto diversi, da quelli completamente rurali ad altri semi-rurali o semi-urbani. Talora, in questi ultimi la struttura sociale più articolata prevedeva perfino la presenza riconosciuta “a livello istituzionale, di due classi sociali: i «gentiluomini» e i «contadini», che si spartivano il potere” in forme diverse nei vari comuni, secondo i reciproci rapporti di forza. Però, man mano che si saliva di livello istituzionale (passando dai Comuni ai Terzieri alla Valle) cresceva il potere reale dell’élite, così che la vita politica valtellinese era dominata, sostanzialmente, da un’aristocrazia fondiaria che difendeva le proprie prerogative sociali ed economiche non solo rispetto ai contadini ma anche contro l’invadenza dell’élite grigione. Complessità che produsse enormi contraddizioni, le quali si ripercossero anche in campo confessionale ed esplosero nel cosiddetto “Sacro macello” del 20 luglio 1620, nel quale furono trucidate circa 400 persone, fra cui la quota dei riformati locali superò il 90%.
Dunque, in conclusione, si può osservare come il combinarsi di diverse circostanze di varia natura abbia condotto due realtà (in qualche modo e misura) simili come Bormio e Chiavenna a imboccare e percorrere (consapevolmente o meno, volontariamente o meno) strade diverse per assicurare il proprio futuro, “aprendosi” o “chiudendosi” secondo i tempi, le circostanze, le attitudini.

La “chiusura” della società bormina si è però progressivamente dissolta in seguito ai processi istituzionali, culturali, sociali, economici avvenuti dai primi del XIX secolo: frazionamento della Comunità e formazione degli attuali cinque comuni (con la perdita dell’egemonia della Terra Mastra), realizzazione della strada carrozzabile dello Stelvio e ripresa dei traffici internazionali (1825), rivitalizzazione del turismo balneare con la costruzione dei Bagni Nuovi (1836), trovarsi nell’immediata retrovia del fronte dello Stelvio nel 1848, 1859, 1866 e 1915-8 (con la presenza di truppe di vario genere), la nascita e lo sviluppo del turismo montano, dell’alpinismo eroico, della villeggiatura estiva, degli sport della neve e del ghiaccio (con una serie di grandi atleti locali) e, non ultimo (come questo libro testimonia appieno), il ruolo delle migrazioni, di forestieri verso l’interno e di locali verso l’esterno (con i grandi apporti degli uni e degli altri all’evoluzione lenta ma sicura della società locale), fino al caso recentissimo e istruttivo dell’accoglienza dei migranti africani e asiatici illustrato da Daniela Canclini ed Enrico Bassi, sembra certificare la definitiva “apertura” della comunità alto-valtellinese indotta dalle vicende della sua storia, immersa in quella generale.
E che ha portato alla rimodulazione di un genius loci peculiare, che trova piena espressione nel gruppo di lavoro del Bollettino Storico dell’Alta Valtellina e del “cenacolo” di studiose e studiosi che da molti anni dà vita alle raccolte di studi che accompagnano gli ormai tradizionali convegni cardiologici bormini.

Luisa Bonesio, Le Alpi tra apertura e chiusura
Il saggio di Luisa Bonesio si pone su questa linea interpretativa, muovendosi però in chiave geofilosofica (l’autrice mi perdonerà se banalizzo o mi correggerà se sbaglio: lo studio delle relazioni che si instaurano fra pensiero e luogo, fra esistenza umana e territorio): le Alpi, a lungo pensate (e utilizzate materialmente e simbolicamente) come realtà immobili, perenni, immutabili (come tali sfondi condizionanti ma insensibili ed estranei alla vita umana) e quasi produttrici di un’umanità primordiale e ivariabile, quasi (o del tutto, per alcuni) a-storica. In pratica, secondo l’autrice, effetto di una “trasposizione della mineralità a carattere della cultura” che esse hanno ospitato nei secoli, e ancora ospitano, pur nelle straordinarie e stravolgenti manifestazioni della “modernità”. Ma, al contrario, come mostrano recenti ricerche (ad esempio quelle condotte dall’antropologo-archeologo Francesco Fedele sul Pian dei Cavalli in Valchiavenna), le Alpi sono “state fin dalla più remota antichità, luoghi di transito, scambio, commercio, incontro tra il Nord e il Sud, ma anche tra l’oriente e l’occidente d’Europa”; in esse “l’emigrazione qualificata delle loro genti verso le pianure e i centri urbani non [è] stata a senso unico”. Interessate da movimenti interni fra aree e quote altimetriche diverse, è chiaro che esse siano state (e siano) “aperte”, permeabili, attrattive: pertanto “la conoscenza archeologica e storica può agevolmente decostruire i sospetti ideologici sulla predeterminazione ambientale e paesaggistica rispetto alle forme di cultura montane”.
Ma, come già notava il Bergier, la formazione degli Stati nazionali e la definizione di frontiere lineari rigide, hanno creato difficoltà nelle comunicazioni materiali, ma spezzato anche continuità territoriali, sociali, economiche, istituzionali (etniche o meno) che la storia (con tutti i suoi fattori) aveva costruito nei secoli o perfino nei millenni. Ma il nuovo tipo di Stato non è l’unico attore che ha modificato a fondo l’antico e mutevole stato di fatto (non è una contraddizione in termini: il mutamento adattivo o radicale era congenito alla “stabilità”, anzi era ad essa del tutto funzionale); ancora più potenti, pervasive, dirompenti, sono state però le forze economiche e culturali della “modernità” nelle sue varie declinazioni (ad esempio, quelle che hanno investito il piccolo borgo di Sondalo ai primi del ’900, facendone una cittadella sanitaria in altura, ma svuotata quando, fortunatamente, la malattia fu sconfitta), fino alle attuali che forse è riduttivo o improprio definire post-moderne (termini che l’autrice qui non usa) o, su un altro piano concettuale e interpretativo, globalizzanti. Per impedire, o almeno contrastare lo “sradicamento pressoché irreversibile” provocato da queste forze risulta “prezioso l’apporto, storiografico ed ermeneutico, degli studiosi che hanno indagato sul popolamento alpino e sui suoi movimenti all’interno delle Alpi e di scambio con le pianure”; a tali forze si può, si deve opporre la consapevolezza che i rilievi, e in specie le Alpi, hanno costituito non soltanto un brutale ostacolo alla vita umana, ma anche un formidabile stimolo alla ricerca dei mezzi per l’esistenza, e quindi alla crescita intellettuale prima ancora che materiale delle loro popolazioni, finalizzata a realizzare i modi e i mezzi della propria vita associata.
 
Appendici

Anna Berbenni, Emigrazione bormina di fine 800-inizio 900 dai registri d’archivio
L’appendice statistica prodotta da Anna Berbenni raccoglie i dati anagrafici di matrice civile negli anni compresi fra il 1883 e il 1902, quelli della prima grande ondata di emigrazione dall’Italia verso i Paesi europei ma, ormai anche e spesso in misura crescente, extra-europei: le Americhe, l’Australia. Si tratta di dati che censiscono, mese per mese e per sesso, nascite (nati “legittimi”, “illegittimi”, “esposti”, “morti”), matrimoni e decessi. Sono inoltre riassunti i dati dell’emigrazione dell’anno 1893 suddivisi per sesso (i maschi sono larghissima maggioranza), professione (prevalgono gli agricoltori) e destinazione (la maggiore è di gran lunga la Svizzera). Infine c’è l’elenco nominativo degli emigrati, con la destinazione e il “recapito”, ovvero le persone o gli enti presso chi svolgeranno la loro attività lavorativa (comprese le caserme presso cui i coscritti svolgeranno il loro servizio militare). Fra le destinazioni sembrano equivalersi le italiane e le svizzere, ma non poche sono francesi, tedesche, inoltre ce n’è qualcuna extra-europea (Argentina, Etiopia, perfino Pakistan). Il 1914, però, è un anno particolare per le migrazioni: come abbiamo già ricordato è l’anno dello scoppio della Prima Guerra Mondiale (28 luglio) e del rientro forzato di masse di emigrati dai Paesi belligeranti; dunque offre l’occasione di interessanti considerazioni. L’appendice offre perciò al curioso, ma soprattutto allo studioso, un’ottima occasione per ricerche su alcuni aspetti della demografia bormina fra l’Otto e il Novecento, un periodo di grande interesse per l’evoluzione sociale, economica, culturale delle nostre valli.